lunedì 27 gennaio 2014

TORINO-DAKAR A/R - Memorie di viaggio #1




Saliamo sulla nave.
Ci sono mille altre persone che su quella nave lasciano Genova alle loro spalle.
Ci sono onde ed onde, che confondono tutti, mescolano i sogni col vento e li portano, dopo 50 ore, fino a Tangeri.

E poi ci sono dei tramonti che rimettono tutto dove deve stare. Ecco, noi eravamo lì dove dovevamo stare il 3 novembre 2013.















Marocco:
 
Scendiamo, sbrighiamo le pratiche doganali, cambiamo la moneta e ci dirigiamo pochi chilometri a sud. Siamo ad Asilah. 3 italiani in Marocco in un B&B gestito da una donna inglese, che non parla francese, la cui figlia è fidanzata con uno spagnolo. Cominciamo con una barzelletta?
Il mattino presto iniziamo a scendere velocemente verso Sud.



Facciamo molta attenzione a non superare i 120 km/h, i controlli stradali sono ovunque, ma tutto considerato è una velocità di crociera soddisfacente, anche se non ci consente di comunicare attraverso gli interphono, troppo disturbati dal fruscio generato dal vento.

 

Fino ad Agadir l’autostrada ci regala poche suggestioni ma infiniti pedaggi. Sorpassiamo diversi furgoni già visti sulla nave, sono carovane strapiene di suppellettili e di vita, come se portassero pezzi di mondo da parte a parte.


I campi lasciano spazio ad eucalipti e serre, la temperatura sale dolcemente, gli strati invernali delle tute da moto trovano posto nelle valigie. L’attenzione per il paesaggio ci distrae dai km percorsi e la yamaha resta a secco, Masi e il suo LC8 diventano carro attrezzi spingendomi fino al primo distributore. 


Dopo Marrakech le montagne regalano lo spettacolo di millenni di sedimentazioni che creano linee ocra ripiegate su loro stesse.



Prima di partire avevamo preso un impegno: avremmo evitato di guidare al buio. Ci penso mentre i fari delle nostre moto per la seconda sera consecutiva fendono l'abisso che ci circonda.
L’autostrada finisce, e con lei anche il primo giorno di viaggio.

 

Ripartiamo da Agadir; il paesaggio si tinge di tutti i rossi riconoscibili, i paesi attraversati diventano sempre più piccoli e le strade sempre più godibili, troppo godibili, la prima multa, dietro espresso "suggerimento" del gendarme, viene negoziata. E’ importante imparare a conoscere gli usi locali.

 

Quando ti avvicini ad El Ayun gli eucalipti lasciano spazio alle acacie, le pecore ai dromedari e gli oued gonfi d’acqua a quelli in secca. I chilometri sono un unico rettilineo, inasprito dal sole del sahara e da un odore nauseante; si tratta di pozze di un nero raggrumato lasciate dai migliaia di camion che trasportano il pesce, e che non avendo refrigerazione lasciano il loro carico mortifero di ghiaccio sciolto e sangue.


Comincia a ripetersi il mantra dei posti di blocco e della distribuzione delle fiches di viaggio. Decine di controlli che iniziano nello stesso modo: “chi siete, da dove venite, dove andate, cosa trasportate…” Non siamo abbastanza audaci ed insolenti per rispondere come Troisi alle porte di Frittole. 


 Ma tant’è, quasi tutti sono estremamente seri e poco inclini ai convenevoli di benvenuto. Alcuni ci lasciano andare in pochi minuti, altri ci fanno aprire le valigie per ispezionarle. L’impressione è che sia la "luna" del momento a determinare la meticolosità dei controlli.

 
Ad El Ayun i primi contrafforti sabbiosi ci guidano fino all’albergo scelto per la notte. Albergo completo. L’ONU ha occupato tutto. 




L’area è presidiata da decine e decine di militari e funzionari delle Nazioni Unite. Il confine etereo con il Sahara Occidentale e i rifugiati del Mali rendono delicata la gestione di questo angolo di mondo. Con il secondo albergo ci va meglio. Trattiamo il prezzo della stanza. Al mattino la prima sorpresa è il messaggio del receptionist: “qualcuno nella notte si è avvicinato alle moto. Controllatele.”


Mancano i guanti invernali di Marco, un giubbotto ad alta visibilità, una penna. Cose di poco conto… o forse no?


Siamo nel Polisario. Nessuno stato lo riconosce, non è presente sulle carte geopolitiche, ma siamo lì.
La tappa fino a Dakhla è lunga.
Centri abitati sempre più rarefatti, temperatura sempre più calda, e la sensazione di spaesamento per la mancanza di punti di riferimento aumenta.
Una presenza importante comincia a farci compagnia, se ne sente l’odore a chilometri di distanza; è l’oceano, che da qui in poi diventerà un compagno costante, e che rappresenta l'unica fonte di sostentamento per gli accampamenti berberi posti lungo questo tratto di costa.



 
 

Facciamo decine e decine di chilometri al suo fianco, accompagnati solo da sabbia e vento, ogni tanto ci sporgiamo oltre il baratro delle scogliere e perdiamo lo sguardo tra le carcasse di navi presenti.
La sensazione è di essere soli in mezzo al nulla, fino a quando d’improvviso una figura umana si staglia nella polvere del deserto. Alle volte con un piccolo bagaglio, alle volte senza nulla, ma sempre con l’aria di essere qualcuno che arriva da molto, molto lontano.
I posti di blocco ora sono avamposti nel nulla, a pattugliare pietre e vento in attesa di qualcosa che non capiamo. Per noi è il deserto dei Tartari.


Improvvisamente, come un'apparizione, incontriamo una sagoma piegata su un manubrio, a pedalare sotto 40 gradi di fatica in mezzo ad un punto imprecisato del deserto. Si chiama Ryoo, è un ragazzo giapponese partito un anno prima dalla Norvegia e destinato ad arrivare a Capo di Buona Speranza con la sua bici. Ci sentiamo granelli di sabbia spazzati via dalla sua limpida perseveranza. Proviamo una spontanea gratitudine. Gli lasciamo il nostro pranzo, ma andiamo via da lì infinitamente più ricchi.


 

L'ultimo tratto prima di Dakhla è un tuffo su una spiaggia senza fine. Ci opponiamo ostinatamente al vento, mentre a qualche centinaio di metri da noi, una girandola di kite surf ci accoglie in una delle località più conosciute da questo sport.




 






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