Saliamo sulla nave.
Ci sono mille altre persone che su quella nave lasciano
Genova alle loro spalle.
Ci sono onde ed onde, che confondono tutti, mescolano i
sogni col vento e li portano, dopo 50 ore, fino a Tangeri.
E poi ci sono dei tramonti che rimettono tutto dove deve
stare. Ecco, noi eravamo lì dove dovevamo stare il 3 novembre 2013.
Marocco:
Scendiamo, sbrighiamo le pratiche doganali, cambiamo la
moneta e ci dirigiamo pochi chilometri a sud. Siamo ad Asilah. 3 italiani in
Marocco in un B&B gestito da una donna inglese, che non parla francese, la
cui figlia è fidanzata con uno spagnolo. Cominciamo con una barzelletta?
Il mattino presto iniziamo a scendere velocemente verso Sud.
Facciamo molta attenzione a non superare i 120 km/h, i
controlli stradali sono ovunque, ma tutto considerato è una velocità di
crociera soddisfacente, anche se non ci consente di comunicare attraverso gli
interphono, troppo disturbati dal fruscio generato dal vento.
Fino ad Agadir l’autostrada ci regala poche suggestioni ma
infiniti pedaggi. Sorpassiamo diversi furgoni già visti sulla nave, sono
carovane strapiene di suppellettili e di vita, come se portassero pezzi di
mondo da parte a parte.
I campi lasciano spazio ad eucalipti e serre, la temperatura
sale dolcemente, gli strati invernali delle tute da moto trovano posto nelle
valigie. L’attenzione per il paesaggio ci distrae dai km percorsi e la yamaha
resta a secco, Masi e il suo LC8 diventano carro attrezzi spingendomi fino al
primo distributore.
Dopo Marrakech le montagne regalano lo spettacolo di
millenni di sedimentazioni che creano linee ocra ripiegate su loro stesse.
Prima di partire avevamo preso un impegno: avremmo evitato
di guidare al buio. Ci penso mentre i fari delle nostre moto per la seconda
sera consecutiva fendono l'abisso che ci circonda.
L’autostrada finisce, e con lei anche il primo giorno di
viaggio.
Ripartiamo da Agadir; il paesaggio si tinge di tutti i rossi
riconoscibili, i paesi attraversati diventano sempre più piccoli e le strade
sempre più godibili, troppo godibili, la prima multa, dietro espresso
"suggerimento" del gendarme, viene negoziata. E’ importante imparare
a conoscere gli usi locali.
Quando ti avvicini ad El Ayun gli eucalipti lasciano spazio
alle acacie, le pecore ai dromedari e gli oued gonfi d’acqua a quelli in secca.
I chilometri sono un unico rettilineo, inasprito dal sole del sahara e da un
odore nauseante; si tratta di pozze di un nero raggrumato lasciate dai migliaia
di camion che trasportano il pesce, e che non avendo refrigerazione lasciano il
loro carico mortifero di ghiaccio sciolto e sangue.
Comincia a ripetersi il mantra dei posti di blocco e della
distribuzione delle fiches di viaggio.
Decine di controlli che iniziano nello stesso modo: “chi siete, da dove venite,
dove andate, cosa trasportate…” Non siamo abbastanza audaci ed insolenti per
rispondere come Troisi alle porte di Frittole.
Ma tant’è, quasi tutti sono
estremamente seri e poco inclini ai convenevoli di benvenuto. Alcuni ci
lasciano andare in pochi minuti, altri ci fanno aprire le valigie per
ispezionarle. L’impressione è che sia la "luna" del momento a
determinare la meticolosità dei controlli.
Ad El Ayun i primi contrafforti sabbiosi ci guidano fino
all’albergo scelto per la notte. Albergo completo. L’ONU ha occupato tutto.
L’area è presidiata da decine e decine di militari e funzionari delle Nazioni
Unite. Il confine etereo con il Sahara Occidentale e i rifugiati del Mali
rendono delicata la gestione di questo angolo di mondo. Con il secondo albergo
ci va meglio. Trattiamo il prezzo della stanza. Al mattino la prima sorpresa è
il messaggio del receptionist: “qualcuno nella notte si è avvicinato alle moto.
Controllatele.”
Mancano i guanti invernali di Marco, un giubbotto ad alta
visibilità, una penna. Cose di poco conto… o forse no?
Siamo nel Polisario. Nessuno stato lo riconosce, non è
presente sulle carte geopolitiche, ma siamo lì.
La tappa fino a Dakhla è lunga.
Centri abitati sempre più rarefatti, temperatura sempre più
calda, e la sensazione di spaesamento per la mancanza di punti di riferimento
aumenta.
Una presenza importante comincia a farci compagnia, se ne
sente l’odore a chilometri di distanza; è l’oceano, che da qui in poi diventerà
un compagno costante, e che rappresenta l'unica fonte di sostentamento per gli
accampamenti berberi posti lungo questo tratto di costa.
Facciamo decine e decine di chilometri al suo fianco,
accompagnati solo da sabbia e vento, ogni tanto ci sporgiamo oltre il baratro
delle scogliere e perdiamo lo sguardo tra le carcasse di navi presenti.
La sensazione è di essere soli in mezzo al nulla, fino a
quando d’improvviso una figura umana si staglia nella polvere del deserto. Alle
volte con un piccolo bagaglio, alle volte senza nulla, ma sempre con l’aria di
essere qualcuno che arriva da molto, molto lontano.
I posti di blocco ora sono avamposti nel nulla, a
pattugliare pietre e vento in attesa di qualcosa che non capiamo. Per noi è il
deserto dei Tartari.
Improvvisamente, come un'apparizione, incontriamo una sagoma
piegata su un manubrio, a pedalare sotto 40 gradi di fatica in mezzo ad un
punto imprecisato del deserto. Si chiama Ryoo, è un ragazzo giapponese partito
un anno prima dalla Norvegia e destinato ad arrivare a Capo di Buona Speranza
con la sua bici. Ci sentiamo granelli di sabbia spazzati via dalla sua limpida
perseveranza. Proviamo una spontanea gratitudine. Gli lasciamo il nostro
pranzo, ma andiamo via da lì infinitamente più ricchi.
L'ultimo tratto prima di Dakhla è un tuffo su una spiaggia
senza fine. Ci opponiamo ostinatamente al vento, mentre a qualche centinaio di
metri da noi, una girandola di kite surf ci accoglie in una delle località più
conosciute da questo sport.
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